Ristorazione, verso un cambio epocale? Per il già stella Michelin La Refezione “bisogna tornare al concetto di ospitalità”
Tempi di cambiamento, quelli che il mondo della ristorazione sta affrontando. Al centro due aspetti cruciali, la sostenibilità economica e l’importanza del servizio offerto. A Garbagnate Milanese, in via Milano 166, il ristorante già stella Michelin “La Refezione” racconta la propria mission: “Non seguiamo le mode, perseguiamo un modo, nella convinzione che fare ristorazione significhi far sentire le persone a casa“.
In quanto a sostenibilità, il più famoso ristorante al mondo premiato con tre stelle Michelin, il Noma di Copenaghen, ha annunciato la sua chiusura entro la fine del 2024: costi insostenibili aggravati dalla crisi economica, hanno convinto lo chef René Redzepi a spegnere i fuochi.
Rea, probabilmente, la visione prettamente imprenditoriale che molti ristoranti hanno sussunto: la ristorazione vista come una logica di “food experience”, anziché di ristoro. Accezione più semplice, ma non necessariamente più umile.
Dall’altra parte, il mondo della ristorazione sta affrontando una vera e propria riforma, che parte dalla sala e dal personale, spesso scontento per gli stipendi poco equilibrati rispetto alla mole di lavoro richiesta. In tal senso, “condottiero” della battaglia è il livornese Gabriele Bianchi, vincitore del premio “Miglior food pairing d’Italia” per la guida “Spirito Autoctono 2022” e già miglior cameriere d’Italia secondo il format “Emergente sala”, nel 2019.
Il servizio, ovvero la sala, sta assumendo un ruolo sempre di maggior rilievo accanto a quello della cucina, da molti visto come unico motore di un ristorante. A voler guardare bene, un cameriere è di fatto una sorta di imprenditore di se stesso; lavora con la propria immagine ed è chiamato a rappresentare il volto del ristorante nel quale opera. Ma soprattutto – chiarisce Gabriele Bianchi – “è nei momenti di relazione col commensale, che una cena può diventare un’esperienza inattesa e un valore aggiunto”.
A soli 30 minuti circa dal centro di Milano, verso il Nord della sua provincia, esattamente a Garbagnate Milanese, il ristorante la Refezione, già stella Michelin e inserito nella guida del Gambero Rosso, si distingue per la sua cornice elegante e accogliente. Un luogo, alla cui base del nome, c’è l’idea di contentezza.
Maurizio Galligani, che oggi dopo 40 anni di attività conduce il proprio ristorante con la moglie Giovanna Cantoni, a Garbagnate Milanese ha portato un angolo della sua terra natia, la Toscana. È un’esperienza, quella della Refezione, che si sente. Si percepisce. Si gusta: ha un po’ il sapore del mare. Un po’ il profumo della terra.
La ricerca di sapori e la trasmissione di sensazioni sono il fil rouge del ristorante, proprio quando la sua mission è quella di far sentire il cliente a casa propria. Del resto, il nome refezione rimanda al concetto di buon stato di salute – così come lo intendeva il filosofo Celso – oppure al concetto di sollievo, quello dell’anima, così come invece lo intendeva Plinio.
La sala della Refezione sembra un bel dipinto, arredata a sua volta con opere d’arte: quelle di Aldo Rossi, Fabrizio Dusi e Franco Francese, solo per citarne alcune. Il servizio al tavolo è sempre preciso. Cortese. Indiscreto. Soprattutto puntuale. Alla Refezione cucinare è un po’ come fare teatro: da uno spazio vuoto, quello descritto da Peter Brook, tutta la magia ha inizio.
Ma in quello che sembra un automatismo, ci sono delle persone, la cui storia e le cui emozioni contribuiscono a rendere un luogo sofisticato, un posto accogliente. “Quello del ristoratore – chiosa Maurizio – è un lavoro fatto da uomini per altri uomini. Alla base del nostro lavoro c’è il concetto di benessere”.
Milano Incontra ha voluto conoscere da vicino lo Chef, Matteo Lanzanova e il titolare del ristorante, Maurizio Galligani.
Matteo, quando hai scoperto la tua passione per la cucina?
“Penso di averla sempre avuta, la passione per la cucina. Quando ero piccolo, mi ricordo che mi divertivo ad osservare i miei nonni o le mie zie a San Benedetto nelle Marche, cercando di imparare da loro. Non saprei se sia giusto dire che è una questione di genetica, ma i miei bisnonni avevano un ristorante: sicuramente un po’ di passione me l’hanno tramandata”.
Rievoca un piatto che meglio ricordi e che più ti ha emozionato
“Sono tanti i piatti che mi emozionano, ma uno in particolare c’è ed è il mondeghilo: una polpetta milanese fatta con carni lesse, la cui ricetta me l’ha insegnata mio nonno. Non sono mai riuscito a farle buone come le faceva lui, ma mettermi al lavoro su questa ricetta mi rievoca la mia infanzia e l’immagine dei miei nonni”.
Cosa significa, per te, cucinare?
“Oltre ad essere il mio mestiere, cucinare mi emoziona e mi diverte. Cucinare è soprattutto la mia natura e per me significa spensieratezza”.
La buona cucina è gusto oppure è business e vanità?
“Sicuramente la cucina vera è più gusto che business. Il business chiaramente dietro un piatto deve esserci: c’è un costo che bisogna valutare e quindi un prezzo di vendita per avere un guadagno. Ma la cucina non deve essere intaccata da questo meccanismo poiché principalmente deve essere gusto”.
Descrivi te stesso in cucina
“Domanda complicata: diciamo che in qualche piatto sicuramente rievoco qualche mia emozione. Mi verrebbe da dire che divertendomi, in cucina sono divertente e tendenzialmente buono. Ritengo però che la cucina sia un meccanismo dove tutto debba funzionare in modo sincrono. Perciò allo stesso tempo sono rigoroso e molto severo”.
Rispetto agli inizi come ti vedi oggi, come sei cambiato?
“Sicuramente sono maturato. Il mio modo di cucinare è cambiato, anche se non radicalmente. I miei principi sono rimasti gli stessi: cerco sempre di rispettare al massimo le materie prime, lavorandole con onestà e correttezza, ovvero senza estremizzare un piatto e i suoi sapori. Ecco, posso dire che la bravura è aumentata, ma la mia idea è rimasta uguale: la semplicità”
Qual è il tuo piatto preferito?
“Il mio piatto preferito che io non cucino è la pizza. Forse perché sta alla base della mia idea di semplicità. Inoltre rievoca la mia infanzia, quando da piccolo la mangiavo andando verso la spiaggia con le mie zie.
Quello che invece detesti?
“Non mi piace l’insalata, in qualsiasi modo la si condisca”.
Il piatto che avresti voluto creare o che hai creato tu?
“Negli ultimi anni ho creato molti piatti, magari prendendo un piccolo spunto da qualche altra ricetta. Uno degli ultimi, ad esempio, è stato una faraona disossata, farcita con pere, prugne e trita di maiale”.
Due sapori che non possono andare insieme
“Credo che certi estremismi non possano andare d’accordo. Ad esempio, non abbinerei mai un gambero rosso di Mazara con la pancia di maialino, salvo poi scoprire che qualche chef lo ha saputo fare con equilibrio. Oggi come oggi la cucina è talmente varia, che ci sono tante ricette capaci di abbinare ingredienti idealmente dissonanti”.
Due sapori che invece stanno bene assieme
“Ce ne sono tanti che stanno bene assieme. A mio avviso, uno degli abbinamenti migliori e forse più classici è il pomodoro con il basilico con cui condire un buon piatto di spaghetti. Una abbinamento che rasenta la mia idea di semplicità”.
Qual è l’ingrediente più importante di una cucina?
“La passione e l’amore per il lavoro che fai. Due ingredienti che chiaramente non bastano per essere un cuoco. Per una cucina, che è un motore, l’ingrediente segreto è la collaborazione tra colleghi e il rispetto delle gerarchie”.
Si usano gli specchi per guardare il proprio viso. Si usa l’arte per guardarsi l’anima. Si potrebbe dire che si usa la cucina, per stare bene con se stessi e con gli altri.
Forse è questo il significato che sta alla base del pensiero di Maurizio Galligani: la persona che torna alla base dell’idea di ristorante, inteso come ristoro.
Maurizio, assaporare o mangiare?
“È un concetto che è molto mutato nel tempo. Quando ero piccolo, ricordo che nella casa dei miei nonni in campagna l’idea di cibo era legata a quella di festa, ossia alla domenica; il giorno durante il quale si era soliti fare una pietanza più golosa e si invitavano i parenti. Per questo motivo, credo che il concetto di cibo non debba essere legato all’idea più imprenditoriale di esperienza, ma deve essere uno star bene legato agli elementi di convivialità e di ospitalità”.
Descrivi in 3 parole la tua idea di servizio e di ristorazione?
“Misura, cura e professionalità”.
Come nasce la tua passione per la ristorazione?
“Fin da piccolo ho respirato quest’aria. A Milano i miei avevano una trattoria. Tornato da scuola correvo a dare una mano ai miei genitori e passavo quindi con loro le mie giornate, salvo qualche giorno di chiusura ad agosto e a Natale. Quella della trattoria è quindi divenuta per me un’aria indispensabile.
Come l’idea di aprire un ristorante e l’idea del nome Refezione?
“Credo che occorra avercelo dentro. Forse è proprio una questione di dna. Così dopo tre anni di studi, decisi di lasciare la facoltà di medicina per dedicarmi alla mia vocazione.
Per quanto concerne il nome del ristorante, quando nell’83 decisi di aprire la mia attività, avevo bisogno di un nome. Le mie origini mi vennero in aiuto: pensai quindi al nome refezione, che nell’accezione toscana è il momento di pausa dal lavoro, ovvero il momento di svago e di contentezza. Momento che è alla base della mia idea di ristorazione”.
Da quando hai iniziato questo lavoro ad oggi, com’è cambiato il modo di fare il ristoratore?
“Quando ho iniziato questo lavoro, aiutando i miei genitori, quelli erano gli anni in cui la cucina rispondeva alla sua principale vocazione: l’ospitalità. Credo che questo concetto oggi si sia un pò perso. Il ristoratore o l’oste offriva un servizio di accoglienza, di ospitalità fatta dalle persone. Oggi i ristoratori sono principalmente imprenditori e quindi è mutato il registro. Penso che se per questa attività ci possa essere un futuro, questi dovrà passare dalla cura con cui viene ospitato il cliente e dalla capacità di tramandare le nostre ricette e la nostra passione”.
Come sono cambiati i gusti delle persone?
Oggi come oggi noto che gli ospiti si propongono diversamente come clienti. La ristorazione è per certi versi diventata un fenomeno di moda e di tendenza. L’approccio – in svariati casi – non è quindi più quello dell’andare al ristorante per gustare e stare bene, ma dell’andarci perché fa tendenza, soprattutto sui social”.
Quando l’arte incontra il Gusto. Quale rapporto esiste tra cibo e arte? E tra Arte e buon bere?
“Questo è proprio il connubio che sta alla base della nostra idea di ristorante, che abbiamo cercato di implementare. Abbiamo sempre voluto offrire un luogo nel quale il cibo si coniugasse con un’armonia altra, dettata proprio dal gusto e dall’idea di bello che incontra il buono. In un ristorante, io credo, devono convivere degli elementi imprescindibili: cucinare le cose quando è il loro momento, con cura e certamente con un pizzico di fantasia e modernità. Pochi tavoli distanziati, così da evitare la confusione. Soprattutto deve esserci l’armonia compositiva di un buon arredo e di una buona mise en place. È molto importante, a nostro avviso, offrire un contesto dove tutte le componenti rimandino ad un’idea unica di armonia”.
Come si coniuga la qualità di un buon ristorante con la qualità del personale?
“Si tratta di una cosa fondamentale. Per fare un buon ristorante ci vuole una buona squadra. Infatti Il nostro è un lavoro di equipe dove tutti devono dare il loro contributo perché si ottenga un buon esito. Il cliente si deve sentire a suo agio, in modo spontaneo e non in modo affettato.”.
Noma, il miglior ristorante del mondo è in procinto di chiudere. Sempre più ristoranti sono in difficoltà: fare ristorazione oggi, è ancora sostenibile?
“Ad un certo punto c’è stata una svolta, durante la quale il mondo della ristorazione – che ha virato verso il mondo del food – ha iniziato ad intercettare molto denaro. Certi ristoranti sono diventati posti di lusso molto costosi, con una visione più imprenditoriale e avvicinabili solo dai ceti più abbienti. Quando questo accade, quando si perde il concetto di ristorante inteso come stare bene, è evidente che si possano verificare dei grossi picchi anche in negativo.
Per quanto mi riguarda l’idea che mi ha sempre mosso non è mai stata quella di diventare ricco, ma di fare bene il mio lavoro”.
Foto e articolo Massimo Chisari
*Pubbliredazionale